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Prime Esperienze

La novizia (pt. 1)


di Scopamico-78
31.05.2024    |    9.080    |    9 9.9
"È evidente che chi pensa di possedere un campo, pensa di possedere anche i fiori che in questo vi crescono..."
PARTE 1

Nessuno può mai sapere cosa accade all’interno dei due momenti fissi e certi come la nascita e la morte, sono due pietre poste all’estremità di un campo di grano nel quale cercavo, a volte allegramente, altre in modo disperato, di muovermi ed avanzare.

All’epoca avevo un’età che mi permetteva ancora di vedere, in modo abbastanza nitido, la solida pietra posta il giorno della mia nascita, circa diciotto anni prima, dai miei amati genitori, contadini non per scelta, fattori alle dipendenze del signore e grande possidente dei terreni e colline di questo scorcio d’Italia.

Erano questi persone rozze ed avare, il cui unico Dio al quale prestare fede era il rendimento dei terreni, la sottomissione dei propri lavoratori.
Tanto avari da non buttare nemmeno per sbaglio un seme di bellezza e di grazia nel loro unico figlio, Pasquale, grosso da competere con il più possente tra i loro buoi, trasandato da meritare la tosatura della loro miglior pecora, maleodorante da preferire di dormire in una delle loro stalle.

Ma l’avarizia è una piovra che si alimenta del buon senso e per Pasquale, la famiglia aveva sempre rifiutato ogni possibile parentela che giammai ridimensionasse i confini dei possedimenti, unica possibilità di vedere Pasquale ad un altare sarebbe stata quella di donarlo, questo prezioso figlio, ad una donna la cui vastità di dote, superasse la vastità delle loro colline.

Magari avesse avuto una sorella il povero Pasquale, sicuramente quegli zotici dei genitori li avrebbero sposati insieme per la gioia dei terreni, ma sicuramente avrebbero fatto la mia di gioia, che ero bellissima, il fiore più delicato che spiccava nei campi del paese.

È evidente che chi pensa di possedere un campo, pensa di possedere anche i fiori che in questo vi crescono.

Così deve aver pensato Pasquale, che aveva più del doppio dei miei anni, quando al mulino mi tolse il sacco dalle mani. In quel momento pensai che si era reso conto che ero stremata, invece le sue intenzioni erano diverse.
Mi trattenne a se con la sua forza, il mio tentativo di divincolarmi fu gracile al confronto, al solo ricordo sento ancora la scossa lungo le gambe che provai. Un brivido che immobilizza, una luce che ti impedisce di vedere.
La mia rigidità deve aver confuso Pasquale che la prese come un consenso e cominciò a tentare di far entrare la sua lingua nella mia bocca semichiusa dallo stupore, se almeno il Signore gli avesse tolto il respiro tant’era disgustoso il suo alito…si protraeva in avanti e continuava a spingere quella lingua nella bocca paralizzata, avevo la sensazione che fosse infinita tant’è che più tentavo di arretrare più mi entrava tra i denti alla ricerca della mia. Deluso mi tolse la veste e la mia pelle di sottilissimo velluto bianco dev’essere stato uno spettacolo meraviglioso a giudicare da come si inferocì.


Ancora mi chiedo cosa avessero le cicale da cantare e gli uccelli da cinguettare in quel pomeriggio al mulino.

Pasquale mi scaraventò sulla pila mezza formata di sacchi, rimasi a pancia in giù, con la testa girata verso sinistra in modo che almeno un orecchio, schiacciato sul sacco, potesse dimezzare quei suoni nascenti da quel momento miserabile nella speranza che anche la memoria ne fosse dimezzata, gli occhi, nel vuoto, guardavano, ma non vedevano, non volevo che nessuna immagine s’incastrasse dentro me.

Non aveva ancora iniziato e già volevo dimenticare.

Tirò fuori il suo membro, non lo vidi, ma lo capii dal puzzo, mi divaricò le gambe penzoloni dalla colonna di sacchi e cominciò a puntarlo contro la mia rosa mai raccolta che tentò di riflesso a chiudersi, ma se queste erano le sue spine, non furono sufficienti all’impeto del mostro.

Si sa, la rosa ha spine per proteggere la sua fragilità non per arma d’offesa.

Pasquale entrò in me portandomi mille lampi di dolore, gemeva come fa il toro mentre monta, si sentiva glorioso da non vedere quant’era goffo. Io sentivo solo dolore ed il ruvido dei sacchi che mi graffiavano il ventre sotto ognuno dei sui colpi, che per fortuna furono pochi.

E goffo e stupido è rimasto lì, in piedi davanti al mio sedere che gocciolava del suo seme.
E mentre le cicale continuavano a cantare, io iniziai ad odiare.

Benvenuta nell’universo delle donne mi dissi, adesso sei anche tu un gioiello da usare, seppur magnifico.

Ero stata addestrata da bambina a quell’eventualità dai racconti e dai pettegolezzi delle donne grandi, dalla mia amata nonna che mi introduceva al mondo dei grandi raccontandomi storie vere come se fossero favole, quei racconti che avevano l’unico scopo di formarmi e farmi abituare all’idea, a loro modo erano dei gesti d’amore e solidarietà femminile cosicché avessi avuto già una corazza, se non al corpo, almeno all’anima.
La violenza su una donna era la consuetudine. Il consenso, la condivisione, l’affetto, erano estasi proibite e pericolose, darne accesso ad una donna e legittimarne l’esistenza equivaleva alla perdita di virilità del maschio.
L’eleganza dell’anima era un sogno che non era sognabile.

Non fui nemmeno onorata di creare uno scandalo, tanto non c’era nulla di scandaloso, anzi il rischio era ancor più grave perché sicuramente io con la mia bellezza sarei stata additata come strega, il diavolo tentatore che aveva fatto cedere ai piaceri della carne il pover uomo probo.

“Voglio andare in convento”.

Mio padre abbassò gl’occhi e pianse, mia madre disse che sarebbe stata una decisione saggia che avrebbe potuto pulire la macchia, io mi dissi che era l’unico angolo del mio campo di grano dove forse avrei trovato pace e qualcosa che assomigliasse all’amore.

Il convento era uno stabile formato da poche linee, nessuna architettura, un parallelepipedo con un tetto monofalda e tante finestre, separato dalla chiesa su un lato solo da una piccola costruzione che era la casa canonica dove viveva Don Mario, il parroco. Fu proprio Suor Monica, la madre badessa ad accogliermi, una monaca più grande di mia madre, dal volto e la voce che mi davano pace. “Vieni cara, per prima cosa dovrai fare la confessione” mi disse. I miei avevano avvisato della violenza subìta e per varcare le porte sacre dovevo purificarmi.

Don Mario, mi chiese d’inginocchiarmi, mi prese la mano e mi aiutò a segnarmi nel nome del Padre…
“Dimmi i tuoi peccati” iniziò
“Ho alzato la voce con mia madre” risposi
“C’è dell’altro?” mi chiese
“Ho guardato di nascosto nella stalla mentre facevano accoppiare il toro e la vacca” ed arrossii.
“Cos’è successo con Pasquale? Hai voglia di dirlo a Dio affinché ti perdoni?” incalzò lui.
“Ha fatto quello che fa il toro, ma io ho sofferto, Dio mi perdona ora Don Mario?”
“Non so, alzati, fammi vedere cosa ti ha fatto e dove”

Mi misi in piedi ed a testa bassa, guardando le mie ginocchia, alzai la mia veste fino alle mutandine.

Don Mario salì con le mani sulle cosce e mi chiese se era li che Pasquale era stato cattivo con me e feci cenno di no, poi più su, finché mi toccò a mano aperta, con quattro dita, sul pube, ed io smisi di dire di no.

“Capisco, vediamo cosa si può fare” disse Don Mario, ma il suo tono di voce era diverso, più tremante ed il suo viso era rosso come quello di mio padre quando tornava ubriaco il giorno della festa.

Iniziò a massaggiarmi sulla figa, mi sentivo strana, come un vuoto al ventre ed avevo la sensazione di piegare le gambe.
“È così che ha fatto Pasquale?” mi chiese
“No, lui mi ha fatto male” risposi
“Ed io non ti sto facendo male?” continuò, feci cenno di no con la testa e socchiusi gl’occhi contro la mia volontà, mi sentivo le mutandine che si bagnavano e mi vergognavo a pensare che stessi facendo la pipì sulla mano di Don Mario, ma era strano perché non sentivo la sensazione della pipì.

“Se non ti sto facendo male, allora sta funzionando” disse Don Mario, “il bene sta entrando in te, lo puoi sentire?”
Mossi il capo in modo affermativo, sentivo il respiro più pesante, avevo caldo e sentivo le gote scoppiare di calore. Vidi Don Mario che muoveva l’altra mano sotto la tunica in modo ritmato ed ad un certo punto iniziò a tremare, face un sospiro lungo come il vento di fine settembre.

Si fermò qualche secondo, tolse la mano dalle mie cosce e la veste tornò giù come un sipario che chiude una scena sul più bello.
“Puoi andare cara, ti assolvo dei tuoi peccati, che il Signore sia con te”.
Mi incamminai verso suor Monica che era rimasta sulla porta d’ingresso della chiesa ed aveva assistito con naturalezza, vedevo i suoi contorni tra la luce che filtrava dalle vetrate, mi sentivo confusa, piacevolmente confusa, sentivo una nuova fiamma accendersi in me, sconosciuta, attraente, ignota.


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